La vita segreta delle parole

Paese: SpagnaAnno: 2005
Durata: 115 minutiRegia di Isabel Coixet

Alla ricerca dell’alfabeto del dolore
per viverlo e attraversarlo

Di Alberto Gambardella
locandina film

Evitare i propri dolori passati può portarci a chiuderci nel nostro silenzio privato, finendo così per alimentare facilmente vittimismo, disperazione e alienazione. Diversamente, cosa può accadere se decidiamo di esporci e aprirci a questo mondo di solitudine, tentando di popolare di parole quel silenzio?

Hanna (Sara Polley), la protagonista, è un’operaia che lavora in una fabbrica di filati sintetici.

La sua esistenza è rimasta intrappolata in uno spazio vitale minimo e limitato, meccanico e ossessivo. Esiliata da una parte di sé stessa si è ritirata in una sorta di prigione.

Gli stessi movimenti, gli stessi atti, gli stessi percorsi: casa-lavoro, lavoro-casa, lo stesso cibo, riso in bianco, pollo e mela, un ricamo come unico passatempo, una montagna di saponette bianche usate con una ritualità ossessiva, una casa vuota e ovattata. Una casa senza tempo, priva di anima.

E poi il silenzio. Un silenzio ancorato saldamente sia alla sua sordità fisica che alla sua esistenza, dove anche le telefonate sono una sorta di dialogo muto. Uno spazio inabitato e impenetrabile.

È la “fortezza vuota” attraverso cui Hanna si difende con tenace ostinatezza e attraverso la quale rimane appesa al mondo e alla vita.

Ma, si domanda una voce fuori campo: «Ammazzare il tempo prima che il tempo ammazzi te. È tutto qui?».

Saltuariamente una voce di bambina rompe l’illimitato silenzio di Hanna. È una voce che percepiamo lontana ed estranea rispetto a Hanna, ma che continua a mandarle messaggi, è la sua “unica compagnia”.

Recita la voce: «Lei non ha mai visto la mia faccia. Mi vede vestita con una salopette di colore rosso e un maglione celeste a collo alto, la salopette è sempre rossa e il maglione sempre celeste, perché? Lei non lo sa il perché».

Il sottile legame tra Hanna e la sua bambina interiore è un rapporto improntato sull’estraneità e la paura. Recita ancora la voce infantile: «Questa notte mi ha raccontato delle storie che mi hanno spaventata, poi si è sdraiata al mio fianco finché non ho chiuso gli occhi».

Nel proseguio delle vicende del film, Hanna è costretta, dal suo datore di lavoro, a prendersi un periodo di vacanze forzate (veniamo infatti a sapere che in tanti anni di lavoro in fabbrica non si era mai presa un giorno di ferie, né era mai mancata).

Ciò provocherà un’iniziale rottura della sua esistenza piatta e monotona. Hanna non si dimostra affatto entusiasta di tale “costrizione” e infatti non si reca ai Tropici ma sceglie, per trascorrere le vacanze, un luogo di mare, freddo e inospitale, che rappresenta un po' lo specchio della sua esistenza.

Ma tuttavia, parte, portando con sé lo stretto necessario, fra cui alcune lettere che gli ha spedito la sua psichiatra e che lei ha sempre rifiutato di leggere.

La decisione della partenza è una prima testimonianza di come Hanna viva nel continuo e disperato tentativo di rimanere attaccata alla propria vita. Arrivata sul luogo di vacanza, Hanna compie un gesto simbolico: getta nella spazzatura il ricamo, il suo unico passatempo.

Poi, in seguito, arrivata in albergo e rimasta sola nella sua stanza, scarica la sua rabbia sul letto e sui cuscini e anche questo è un segno della vita che comincia a rifluire dentro di lei.

Durante un pranzo al ristorante, cogliendo un’occasione che la vita le offre, Hanna viene assunta, temporaneamente, come infermiera su una piattaforma petrolifera in procinto di essere dismessa.

Lì viene incaricata, per un breve periodo, di prendersi cura di un uomo, Joseph (Tim Robbins), che durante un incendio scoppiato sulla piattaforma, nel vano tentativo di salvare un compagno, è rimasto ustionato e provvisoriamente affetto da cecità.

La piattaforma petrolifera, sospesa su milioni di tonnellate d'acqua, è un mondo popolato da pochi personaggi, perloppiù schivi e, come Hanna, rimasti impigliati nei propri grovigli esistenziali.

Afferma uno di loro: «Anche a me piace stare solo, forse è proprio per questo che sono qui, come tutti noi».
Sulla piattaforma Hanna trova un nuovo spazio: è un luogo appartato, poco accessibile, battuto solo dal ritmo incessante del vento e delle onde prodotte da «milioni di tonnellate d’acqua».

Recita una voce fuori campo: «Ci sono poche cose laggiù, amore-sangue, cenere-luce, in questo preciso istante, un attimo fa, l’ho già detto, ci sono così poche cose: silenzio e parole».

E in questo spazio, privo degli abituali contatti, senza confini precisi né punti di riferimento, tutto diventa più nudo ed essenziale: anche un’oca ha un suo nome (Lisa) e anche una pianta di basilico, coltivata in un vaso ricavato da un barattolo di latta, emana una sua forza vitale, una tenacia straordinaria, nel modo in cui si piega, modulandosi, ai soffi di un vento inclemente.

«Sì, la vita è strana» afferma uno dei personaggi del film, ed è qui, sulla piattaforma, che Hanna comincia lentamente a demolire la roccaforte della sua fortezza vuota.

Sollecitata e stimolata dalle prelibatezze del cuoco di bordo, Simon (Javier Camara), comincia ad aprirsi a nuovi sapori rompendo il circuito del riso bianco-pollo-mela, fino ad arrivare a declamare pubblicamente le lodi del budino preparato da Simon: «È la cosa più buona che abbia mangiato in vita mia».

Ora, Hanna, ha ritrovato qualche buon sapore, qualcosa oltre la sua sofferenza e il suo silenzio. E in questa crepa, che si è aperta nel muro della sua corazza, cominciano lentamente a rifluire, come sospinte dalla forza delle onde e del vento, le parole segrete e mute del suo atroce passato.

All’inizio del rapporto con Joseph, quasi come attraverso un crudele e oppositivo gioco delle parti, Hanna si mostra chiusa, silenziosa e diffidente mentre Joseph si mostra spavaldo, istrionico e apparentemente comunicativo. Pur attraendosi i due finiscono per respingersi e ciascuno riesce a contattare l’altro solo attraverso le maschere fabbricate e modellate in anni e anni di vita.

Negli sviluppi del film, sarà ancora il cuoco Simon, una sorta di demiurgo, a contribuire all’inizio di un cambiamento: attraverso uno scambio di opinioni crude e dirette con Joseph, provoca lo smottamento delle vecchie sicurezze e certezze di Joseph, portandolo ad aprirsi ai suoi dolori passati.

Joseph, abbandonata la sua maschera istrionica, inizierà così a raccontare ad Hanna prima, la storia impossibile di un amore tragico tra un ragazzo adolescente e un’infermiera, poi le offese ricevute e il terrore vissuto attraverso l’aggressione paterna subita quando da ragazzo il padre aveva tentato di annegarlo e infine confessa il tradimento nei confronti dell’amico e compagno di lavoro sulla piattaforma, compiuto attraverso la relazione avuta con la moglie e il tragico epilogo del suicidio dell’amico.

Le parole di dolore espresse da Joseph, la sua confessione sofferta, preparano il terreno affinché Hanna possa, a sua volta, dare voce al suo passato. In un crescendo drammatico, Hanna rompe il suo silenzio e racconta le violenze atroci e gli atti di stupro subiti durante la guerra balcanica. Mentre parla posa delicatamente le mani di Joseph sulle cicatrici rimaste impresse sul suo corpo dopo le sevizie subite.

Ora non ci sono più segreti da nascondere e da cui difendersi. Joseph, da cieco, tocca il dolore sul corpo di Hanna, che, da sorda, ascolta e accoglie con compassione le parole di Joseph. Un pianto profondo e condiviso rompe il muro impenetrabile delle loro sofferenze mute.

Le loro ferite si aprono permettendo al dolore di esprimersi e offrendo la risposta alla domanda che Joseph si era precedentemente posto: «Come si può convivere con il proprio passato?»

Il film si conclude con una sorta di rimarginazione della scissione che Hanna aveva creato con la sua bambina interiore (cioè la sua parte solare, istintiva ma anche quella rimasta offesa e umiliata), la bambina che, all'inizio del film, viveva dentro lei come un corpo estraneo, alieno, scisso.

«Ora», afferma la bambina nelle battute finali, «niente di tutto quello che è successo si metterà tra noi». Ora quella bambina è stata riconosciuta, può crescere, può indossare un nuovo vestito, non è più imprigionata nella «salopette di colore rosso e nel maglione celeste a collo alto».





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